Franco Caminiti legge il canto 40° de 'La humana istoria' in cui descrive un immaginario incontro con l'ombra di Benito Mussolini. In un delirio fra surrealismo e realtà il 'duce' ammette le proprie debolezze e i propri errori ma tenta anche un'autodifesa e denuncia il trattamento ricevuto a Piazzale Loreto.
Quando le prime persone che vennero a contatto con La humana istoria la definirono, senza tentennamenti: ‘la Divina Commedia del 21° secolo’, ne diedero una collocazione letteraria, per certi versi, ovvia e, al tempo stesso, legittima e appropriata.
Sarebbe stato, d’altronde, complicato spiegare di cosa si trattasse e riuscire a farlo in modo sintetico. Per questa ragione abbiamo lasciato che la definizione si affermasse e, al momento di andare in stampa e immettere sul mercato l’opera, ne abbiamo fatto lo ‘strillo editoriale’.
Del resto, le analogie fra le due opere ci sono, a partire dall’idea dantesca di un viaggio nell’oltretomba: la scelta metrica delle terzine di endecasillabi, la rima incatenata, la divisione in canti, la loro lunghezza che l’autore de la Istoria ha mantenuto (circa 150 versi ogni canto), l’uso costante del discorso diretto nei dialoghi, l’idea di una guida che faccia da interlocutore, figura che Dante ha individuato in Virgilio e che Caminiti, con riverente omaggio, ha individuato proprio in Dante Alighieri.
Tuttavia La humana istoria non può essere considerata un remake della Divina Commedia, dal momento che un remake ripropone la stessa storia rivisitata con altri linguaggi e, come nel cinema, utilizzando nuove tecnologie. In questo caso, invece, si tratta di tutt’altre storie, dal momento che quasi tutte le vicende trattate in quest’opera sono collocate in un periodo successivo a quello di Dante e, in particolare, vanno dal Rinascimento ai giorni nostri; di conseguenza, non vi può essere alcuna diretta comparazione fra i due poemi. E, con le vicende, anche i personaggi sono diversi, salvo rari casi; ed anche in questi casi (Ulisse, ad esempio, lo troviamo anche ne la Istoria) figure e situazioni sono viste da una diversa angolazione.
Il linguaggio
Aprendo l’opera, in una qualunque delle sue pagine, si nota immediatamente che il linguaggio è lontano sia dallo stile dantesco, sia dall’utilizzo di tutte quelle formule (o licenze) poetiche che caratterizzano la maggior parte delle opere in versi.
L’Autore sceglie un modo di esprimersi attuale, a volte con frasi ad effetto che ricordano lo stile pubblicitario, e riesce a fare ciò rispettando la metrica dell’endecasillabo e utilizzando le rime in modo che il discorso ed i dialoghi mantengano sempre una straordinaria fluidità.
L’endecasillabo e la rima non sono, quindi, dei limiti ma diventano strumenti utilizzati con grande maestria per accentuare il ritmo narrativo e l’efficacia delle frasi. Ne nasce un andamento ‘musicale’ che evidenzia al lettore il fatto che Franco Caminiti è anche musicista; e questo valore aggiunto di sensibilità artistica spinge l’Autore a pretendere, e ad ottenere, dal verso una particolare musicalità.
Può capitare di incontrare, qua e là, versi che eccedono le 11 sillabe ma che, letti con le giuste accentazioni, rientrano nella metrica. Si noterà, infatti, che l’Autore ha utilizzato l’accento su tante parole che, normalmente, non vengono accentate, proprio per agevolarne la lettura corretta.
Nel confessarci le difficoltà incontrate nel realizzare quest’opera, Caminiti ci ha fatto notare come egli sia stato avvantaggiato, nei confronti di Dante, dal fatto di avere a disposizione una enorme quantità di parole tra le quali scegliere le più appropriate. Dante Alighieri, invece, nel preferire il volgare, la lingua utilizzata dal popolo, si ritrovava con uno strumento linguistico alquanto rudimentale, non ancora codificato, “...e proprio da questo emerge la grandezza del poeta fiorentino che, a buon diritto, va considerato il padre della lingua italiana.”
Al tempo stesso, ci fa notare l’Autore che, trovandosi nell’empasse della rima, Dante poteva ricorrere a neologismi, al troncamento delle parole, eliminando sillabe dove ciò era richiesto dalla esigenza metrica. Ne la Istoria, invece, le parole tronche, caratteristiche della poesia, vengono utilizzate molto di rado, e soltanto quando quel troncamento fa parte del linguaggio quotidiano.
La stessa proprietà di linguaggio viene, a volte, sacrificata a beneficio di una maggiore comprensibilità. La parola colta lascia spazio alla parola più usata, che dia, oseremmo dire, una risposta subliminale più immediata e certa. Questo ha comportato un doppio lavoro nella ricerca linguistica: trovare la parola più appropriata e poi, magari, sacrificarla perché non immediatamente fruibile nel contesto.
Tornando col discorso alla rima incatenata ed alla comprensibile difficoltà che comporta, leggendo criticamente la Divina Commedia si nota come Dante ricorra spesso a metafore o si rifugi in argomenti mitologici, similitudini, e quant’altro, che, a volte, risultano veri e propri ‘escamotage’ per divincolarsi dall’empasse della rima. Salvo poi ritrovare ulteriori e importanti significati e motivi di approfondimento proprio in quegli ‘escamotage’.
Bisogna ammettere che, nel progettare un’opera della portata della Commedia o della stessa Istoria, oltre ad avere il dono della poesia, una sufficiente formazione culturale e una grande padronanza linguistica, è fondamentale poter disporre anche di una buona dose di ‘mestiere’.
Caminiti, tuttavia, non ricorre mai a ‘furbizie’ nella ricerca della rima, piuttosto ribalta la frase, sposta i concetti, spesso, come ci ha detto, rifacendo il brano a partire da alcune strofe prima. Questo non si spiega soltanto con una onestà intellettuale nei confronti del lettore (“Le parole ci sono,” dice Caminiti, “basta cercarle!”), ma perché il ricorrere ad escamotage linguistici, a citazioni o altro, solo per trovare la rima che serve, finirebbe con lo spostare l’attenzione distraendola dalla scena, e rallentando, inevitabilmente, l’effetto narrativo.
L’Autore si rende conto che è destinato a divenire, suo malgrado, oggetto di un confronto con il padre della nostra lingua e, restando per tutta la stesura del poema sempre un passo indietro, doverosamente, gli rende omaggio nel modo più esplicito e più umile:
“Facile a dirsi per te che hai gli strumenti
di cui madre natura ti ha dotato”,
risposi: “sai scrutare i sentimenti,
hai il metro, le parole...Dio ti ha dato
tutto ciò che ti serve: il cuore e l’arte.
mentre di sé stesso dice:
“l’essere nato di mediocre pasta!”
Un inferno senza dèmoni
Caminiti rivoluziona l’iconografia ufficiale che vuole l’inferno infestato da dèmoni spaventosi, con code e tridenti, intenti a tormentare i dannati che ardono nelle fiamme eterne; una iconografia per secoli sostenuta dagli artisti e avallata dalla Chiesa.
L’inferno di Caminiti è costituito da una serie di luoghi dell’anima, ambientazioni oniriche, spesso ispirate dalla logica del contrappasso, che non si sviluppano in una dinamica geometrica che consenta una divisione strutturale in cerchi, gironi, bolge, o qualcosa di analogo.
L’inferno non è un luogo, o una regione,
o un nemico che con coraggio affronto.
Spesso è un’idea che crea una condizione!
Il lettore assiste ad un viaggio che vede salite e discese alternarsi a luoghi pianeggianti, ambienti chiusi che precedono o seguono quelli aperti, grotte, caverne, ma anche palazzi, strade lastricate come una consolare o asfaltate come un’autostrada, spiagge e stagni limacciosi, miniere e radure desolate.
Sono tutti luoghi che l’Autore presenta in un’altalena di reale e surreale. Gli stessi personaggi, il loro comportamento, i loro dialoghi, nella maggior parte dei casi, sono solo una metafora. A volte partono dal surreale per approdare ad uno spietato realismo, per ritornare in un surrealismo che va dall’ironia al sarcasmo.
Ma non vediamo dèmoni, salvo rari casi di ombre indefinite che lasciano supporre una loro presenza, e Satana che incontriamo alla chiusura dell’opera. La presenza demoniaca, invece, è palpabile nei personaggi.
Questi mostrano una assoluta refrattarietà al pentimento, mantengono la loro arroganza, con un nefasto utilizzo del libero arbitrio. In essi non si riscontrano moti di redenzione, nemmeno di fronte alla morte ed alla consapevolezza di aver lasciato, ormai, tutto ciò che è terreno: averi, potere, privilegi, prerogative, per ritrovarsi nudi davanti a sé stessi, alle proprie colpe, ai propri errori, ingordigie, debolezze, cattiverie, crudeltà.
Un inferno, quindi, senza speranza, dal momento che non c’è volontà di redenzione, e dove la parola ‘amore’ non ricorre quasi mai.
Un inferno in cui, tuttavia, incontriamo anche figure di santi o di saggi (Tommaso Moro, Giordano Bruno, Giovanna d’Arco, ecc.) che l’Autore colloca in determinate situazioni nelle quali risultano straordinariamente funzionali al racconto.
La motivazione morale
È palese l’intento moralizzatore dell’opera. Tuttavia l’Autore si tiene ben lontano dai facili e scontati moralismi, anzi evita i giudizi, preferendo un approccio alle situazioni quasi sempre cauto, umile, e ispirato da umana pietà.
Preferisce lasciare che la verità storica emerga senza commenti demandando, così, a chi legge il compito di trarre le conclusioni. È come se l’Autore scoprisse le cose insieme al lettore e resta un osservatore staccato, non mostra convinzioni preconcette, se non quelle che la storia ha ormai imposto con l’accertata verifica dei fatti.
E, anche in quei casi, Caminiti tenta una sorta di revisione, adoperando una diversa chiave di lettura, aggiungendo elementi non noti al grande pubblico, nell’intento di spingere il lettore ad una maggiore coscienza critica, quasi suggerendogli di non fermarsi alle righe della storia, seppure scritte da storici autorevoli, ma di leggere oltre, tentando di scoprire l’altro lato della medaglia, le motivazioni recondite che hanno spinto ai fatti, le ragioni, spesso colpevolmente trascurate dai giornali o dai libri, che hanno motivato certi comportamenti.
Quindi: non risposte preconfezionate, ma una ricerca a tutto campo della verità. L’obiettivo finale è di indurre il lettore a informarsi, a saperne di più, ponendosi, di volta in volta, la domanda: ‘cosa c’è dietro?’
Ma la storia è la storia ed ha un dovere:
le verità non sono tali se son mezze!
La politica
Caminiti non fa mistero delle sue idee politiche: si definisce ‘liberalsocialista’. Ma il liberalsocialismo è un movimento politico che non esiste, seppure sia esistito nell’immediato dopoguerra. Riesce, comunque, a mettere da parte le sue convinzioni per poter guardare ai fatti con occhio distaccato, anche se non avulso, è ovvio, dalla realtà o dal sentire comune, ma assolutamente libero da condizionamenti personali.
Anche l’imparzialità, tuttavia, vuole i suoi limiti, e del resto, il lettore legittimamente ‘pretende’ da un’opera come questa una presa di posizione da parte dell’autore. E l’Autore non si tira indietro, non si ‘nasconde dietro un dito’ nel timore di scontentare questo o quello, al contrario: quando la logica dell’opera lo vuole, anzi impone che egli si esprima, lo fa, e senza mezzi termini:
La verità scala le vette sino in cima...
È inutile che li camuffi e li confondi:
fascismo e comunismo fanno rima!”
Cerca, quindi, per quanto possibile, di immaginare quale potrebbe essere la posizione dei personaggi, partendo, ovviamente, da un’analisi storica e filosofica, permette che essi tentino una personale difesa, oppure facciano un’ammissione dei propri errori, a seconda se il loro profilo caratteriale lasci supporre l’una o l’altra cosa.
A volte, invece, non consente loro il privilegio di prendere la parola, laddove il comportamento da vivo è stato tale da suscitare nell’Autore un sentimento di repulsione che il lettore, supponiamo, condividerà.
Poi ci sono le prese di posizione, senza ‘se’ né ‘ma’, contro alcuni crimini: la pedofilia, la mafia, la gratuita crudeltà, per arrivare alla condanna senza appello dei totalitarismi.
La fede
L’aspetto fideistico è, naturalmente, fra i più importanti dell’opera. L’Autore si rivela per quello che è: un credente non praticante, un laico che è convinto devoto di Padre Pio ma non prega con assiduità. Un atteggiamento, quindi, razionale, per quanto lo si possa tenere nei confronti di argomenti che investono il campo della spiritualità. Caminiti cita la Bibbia e il Vangelo, ma anche il Corano, e disquisisce con forza con un terrorista islamico affrontandolo proprio sul suo terreno con una inconfutabile citazione coranica:
Il Libro è chiaro: ‘non fate il gesto insano’:
soratta quattro, versetto trentatré,
chi lo ricorda tra voi alzi la mano!...”
Un rispetto massimo e tollerante, quindi, per le religioni, e per coloro che ne sono i seguaci; una convinzione monoteistica che accetta, però, le sue varie espressioni o interpretazioni:
La Chiesa è una, ma non è una sola;
l’unico è Dio, qualunque nome prenda,
poi la fede che affligge o che consola,
sia quel che sia, purché Dio non offenda!”
Struttura e stile dell’opera.
Questa prima parte de La Humana istoria è strutturata in 44 canti, più un ‘Commiato’, di circa 150 versi cadauno (l’Autore ha scelto per sé il numero 4 in quanto rappresenta la perfezione e ne dà una spiegazione alla fine del XXXIII canto). A differenza dei canti della Divina Commedia, questi della Istoria sono frazionati in paragrafi, quasi tutti da 4 a 6.
Il paragrafo è un’esigenza tipica della stesura di un romanzo, consente di effettuare cambi di scena e spostamenti spazio-temporali nella narrazione. Per accentuare questo interrompersi e riprendere del racconto, il nuovo paragrafo parte sempre con una nuova rima, rompendo, quindi, la concatenazione con il paragrafo precedente; questo rende la narrazione più dinamica, come un montaggio veloce nel cinema.
Infatti, come ama definirlo lo stesso Caminiti, ‘La humana istoria’ è un ‘romanzo onirico in terzine dantesche’.
Secondo la tecnica dei thriller, la narrazione parte in tono quasi ‘minore’ per poi andare in un crescendo costante. Le situazioni si fanno sempre più crude, ed anche il linguaggio tende, man mano, a mutare, allontanandosi dallo stile tipicamente poetico, per diventare sempre più romanzesco e poi, sempre più giornalistico.
Man mano che il viaggio procede, si scende nei meandri dell’animo umano, nelle sue più inconfessabili miserie, nelle più assurde atrocità, sino al culmine terribile e sconvolgente degli ultimi canti. E mentre nei canti iniziali l’Autore si concede spazi di riflessione, momenti di titubanza, incertezze che richiedono l’intervento rassicurante di Dante, maestro e compagno di viaggio, a partire dalla metà del poema, tutto diventa più veloce, i dialoghi più incisivi, le scene più cruente, i dettagli sempre più tendenti ad uno spietato realismo. Non c’è mai, tuttavia, il compiacimento, l’orrore per l’orrore, anzi si percepisce il disagio dello stesso Autore nel descrivere certe scene.
La narrazione viene affidata sempre più alle immagini, in una scansione che definiremmo ‘cinematografica’.
Fra i vari canti non c’è mai soluzione di continuità, il canto successivo è sempre prosecuzione del canto precedente, e i passaggi da un luogo all’altro sono funzionali al percorso. Tuttavia, seppure sia preferibile e consigliato leggere il libro seguendone lo sviluppo pagina dopo pagina, non è da scartare nemmeno l’idea di una lettura per scelta di brani, partendo dall’indice. Cioè il lettore potrebbe scegliere il personaggio e andare a leggere quella parte, estendendo la lettura al canto precedente ed a quello successivo in modo da non perdere quelle che sono le parti di collegamento che, a volte, sono fondamentale introduzione alla presentazione dei personaggi o delle situazioni.
La stesura dell’opera, ci ha spiegato l’Autore, ha richiesto un tempo relativamente breve, un anno di intenso e meticoloso lavoro durante il quale l’impegno poetico e creativo è andato di pari passo con quello di ricerca storica, iconografica, filosofica; le note a margine, dove queste sono state ritenute indispensabili, lo testimoniano. Come il lettore noterà, queste note non sono mai relative ai concetti ma si limitano a dare indicazioni sui personaggi, laddove si suppone che questo possa agevolare una più immediata comprensione dell’opera avendo più chiari i suoi riferimenti storici. La descrizione dei personaggi, infatti, cerca di essere sempre quanto più meticolosamente rispondente alla realtà.
Il tempo breve ha consentito di ottenere una maggiore uniformità di stile narrativo, e questa è stata una scelta precisa dell’Autore che ha preferito rimandare l’inizio dell’opera prolungandone la gestazione e stringere, poi, i tempi della sua stesura.
Interrogato sui futuri sviluppi, l’Autore non ci ha dato rassicurazioni, né ha ipotizzato tempi.
Egli, tuttavia, immagina l’Aldilà (quindi la struttura dell’opera) diviso in tre parti: la giustizia (inferno) dove vi sono tutti coloro che hanno commesso crimini efferati senza mostrare alcun desiderio di redenzione; la conoscenza (purgatorio) dove coloro che non hanno commesso crimini aberranti e che, comunque, manifestano la volontà e la predisposizione a redimersi, fanno un percorso di maturazione supportati da uno spirito guida; la grazia (paradiso) dove le anime purificate possono dialogare con i santi e godere della luce di Dio.
Chiudiamo con una nota sulla scelta del titolo: ‘humana’ scritto con l’h, serve a dare una caratterizzazione di classicità; ‘istoria’, invece, spiega l’Autore, vuole essere un neologismo derivato dal verbo ‘istoriare’: “ornare con immagini legate tra loro da un nesso narrativo” (Dizionario Garzanti).
Caminiti, in questo poema, ha cercato, seppure in modo veloce e, per forza di cose, molto limitato, di sfogliare alcune pagine della storia umana e poi raccontarle per immagini in terzine di endecasillabi con rima incatenata.
Dante Alighieri, otto secoli fa, fece la stessa cosa. E forse con le stesse motivazioni!
L’editore